lunedì 25 aprile 2011

Le bugie sui conti dell'Italia



Segnalo un articolo apparso su "La Stampa" di Bill Emmott, ex direttore dell'Economist, in cui spiega molto bene la situazione dell'Italia, sbugiardando chiaramente molte delle convizioni che ogni giorni sentiamo dire da politici e pseudo giornalisti. I fatti che andrete a leggere sono stati ripetuti mille volte da gente come me e molto più brava-preparata di me, quindi nulla di nuovo sotto il sole, però lette tutte assieme in questo modo credo siano più forti.

Invito tutti voi a condividere ciò che Emmott dice. Se non ci informano, è nostro dovere informarci da soli e il miglior modo è condividere ciò che i guru-esperti, quelli veri ed onesti, dicono.


Il titolo è appunto "Le bugie sui conti dell'italia":

E’ normale aspettarsi dai politici mezze verità quando non addirittura bugie: in questo l’Italia non è unica, anche se resta un’eccezione la capacità del suoi leader di dire qualcosa un giorno per negarlo il giorno dopo, nella peraltro giustificata convinzione che le loro parole verranno comunque rapidamente dimenticate. Ma non mi aspettavo che questo fenomeno riguardasse anche l’economia, campo dove è facile verificare come stanno davvero le cose. Eppure, andando in giro per l’Italia, mi sono accorto che dichiarazioni false sull’economia nazionale vengono prodotte ogni giorno non solo dai politici, ma anche da banchieri, imprenditori e perfino esponenti del governo.

E’ vero che alcune di queste dichiarazioni potrebbero venire catalogate più come opinioni che come constatazioni dei fatti, in quanto l’economia possiede aspetti soggettivi e spesso il dibattito riguarda un futuro imprevedibile sul quale non si dispone di certezze. Eppure mi sembra che ci sia qualcosa di più, visto che il ricorso a dichiarazioni false, anche sul presente e sul passato, resta così diffuso. Così ho prodotto una teoria: si tratta di una forma di auto-illusione nazionale, nel tentativo di sfuggire alla dolorosa realtà.

Permettetemi di spiegarla. Il primo mito che ho sentito decine di volte ripetere agli imprenditori è che l’Italia è nell’ottima posizione della seconda «economia d’esportazione» d’Europa, dopo la Germania.

L’ultima volta l’ho sentito il 3 marzo, quando il Sole - 24 Ore ha organizzato un dibattito con me e Marco Fortis della Fondazione Edison sull’economia italiana, e nella loro introduzione all’articolo in merito i giornalisti del quotidiano economico hanno scritto: «Le esportazioni, invece, viaggiano a ritmo sostenuto, seconde soltanto a quelle della Germania». Ciò nonostante il fatto che durante il dibattito io e Fortis ne abbiamo parlato e abbiamo convenuto che non era vero.

L’idea è bella, ma purtroppo le esportazioni annue dell’Italia la collocano non al secondo, bensì al quarto posto nell’Ue, con il sorpasso della Francia e dei Paesi Bassi. Se poi, come si dovrebbe fare se si misurano le entrate reali dalle esportazioni, si includono nel calcolo anche i servizi, l’Italia scende al quinto posto, battuta anche dal Regno Unito. Si potrebbe anche ammettere che nel caso dei Paesi Bassi alcune esportazioni sono in realtà re-esportazioni in quanto si tratta di prodotti trasportati su per il Reno e lavorati laggiù, ma anche con questa correzione l’Italia non riesce a riguadagnare il secondo posto.

Si potrebbe obiettare che sono soltanto dettagli statistici, che le esportazioni italiane restano forti e che i giornalisti del Sole si riferivano alla loro variazione di crescita piuttosto che al loro livello in termini assoluti. Questa affermazione è stata recentemente fatta nientemeno che da Antonio Vigni, presidente della terza banca italiana, Monte dei Paschi di Siena, in un’intervista («View from the Top», 15 aprile 2011) al Financial Times. In questo breve colloquio ha opportunamente ripetuto tre dei miei miti preferiti sull’economia italiana. Ha detto che la crisi economica ha «messo alla prova la forza del nostro sistema industriale», che stiamo assistendo a «un balzo del livello delle esportazioni e della ripresa», e che la situazione delle famiglie italiane è «positiva per l’economia» a causa del loro basso livello di indebitamento e alto tasso dei risparmi.

Non voglio prendermela con Vigni: ha solo ripetuto quello che dicono in tanti, anche se da un banchiere mi sarei aspettato che ogni tanto desse un’occhiata ai numeri. Per quanto riguarda la prima affermazione, che il sistema industriale italiano ha dimostrato la sua forza, basta andare a guardare l’ultimo Bollettino economico prodotto dalla Banca d’Italia, dove si dice che «la crescita del settore manifatturiero è stata meno robusta rispetto ai principali Paesi della zona dell’euro: rispetto al livello pre-crisi, nel febbraio 2011 la produzione industriale in Italia era scesa circa del 18%, contro il 9% in Francia e il 5% in Germania». Numeri che fanno apparire il «sistema industriale» italiano debole più che forte.

Ma tanto le esportazioni sono tornate a crescere, no? E’ vero che l’export di beni e servizi dall’Italia è aumentato nel 2010 dell’8,9%. Ma nello stesso periodo la Francia ha visto un aumento del 10,1%, il Belgio del 10,2% e la Germania del 14,1%. A essere onesti, Vigni ha dato questa risposta alla domanda se fosse possibile paragonare l’Italia al Portogallo, alla Grecia, all’Irlanda e alla Spagna, le economie della zona euro che non fanno dormire gli investitori. Diamo però un’occhiata ai tassi di crescita delle esportazioni portoghesi (8,7%) e spagnole (10,3%) del 2010, e la presunta potenza esportatrice dell’Italia non appare più così convincente. Senza poi menzionare il fatto che l’Italia nell’ultimo decennio ha avuto un deficit commerciale, in quanto importa più di quanto esporta.

Allora Vigni ha ragione ad affermare che le famiglie italiane sono un fattore positivo, con i loro debiti bassi e i risparmi cospicui? E anche quando dice che il sistema bancario italiano è più stabile di quello di molti altri Paesi europei? Entrambe queste affermazioni così diffuse sono vere, ma non contano molto. Potevano suonare rassicuranti durante la tempesta finanziaria del 2008-9, quando l’alto indebitamento delle famiglie, il basso tasso di risparmio o banche propense ad avventure internazionali erano fattori di rischio, minacciando la riduzione dei consumi o il collasso del sistema bancario. Ma oggi, la tempesta è passata.

Le famiglie italiane possiedono un patrimonio di ricchezza impressionante. Ma le loro spese di consumo non sono molto positive per l’economia, per la semplice ragione che le entrate in termini reali (tenendo conto dell’inflazione) e dopo il pagamento delle tasse sono scese per tre anni consecutivi, dal 2008 al 2010. Il consumo delle famiglie si è ridotto meno delle entrate nel 2008-9 e si è rianimato nel 2010, in quanto la gente ha deciso di mettere da parte meno di prima. Di fatto, il famigerato tasso di risparmio delle famiglie italiane (un autentico fattore di forza nel passato) sta scendendo dal 2002, e nel 2010 è stato - secondo i dati dell’Istat - inferiore sia a quello della Germania che a quello della Francia. L’abitudine a spendere i risparmi può mantenersi, ma in questo caso in breve tempo l’Italia non vanterà più un alto tasso di risparmio. E’ quello che è accaduto in Giappone negli ultimi 20 anni.

La questione della forza e del peso dei risparmi delle famiglie ci fa capire perché le illusioni sull’economia italiana sono così diffuse e radicate. Esse sono un modo per non vedere le debolezze, in questo caso il fatto che i redditi delle famiglie stanno scendendo e sono deboli ormai da più di un decennio. Questo è stato vero perfino nei periodi di riduzione del tasso di disoccupazione, in quanto era dovuto essenzialmente alla creazione di milioni di impieghi precari e a bassa retribuzione. Ora che la disoccupazione è tornata a crescere, e per ora non accenna a diminuire, la politica e l’opinione pubblica dovrebbero concentrarsi proprio su questa incapacità di creare posti di lavoro che producano un aumento del reddito delle famiglie.

Lasciamo in pace il signor Vigni, l’ho torturato abbastanza. La mia prossima vittima sarà un rappresentante molto importante del Tesoro, di cui non posso fare il nome in quanto le parole che sto per citare sono state pronunciate «off the record» a un seminario per giornalisti britannici tenutosi a Venezia in gennaio. La sua dichiarazione comunque è apparsa in un articolo sull’economia italiana nella rivista di cui sono stato direttore, The Economist, e naturalmente ha attratto la mia attenzione. Questo signore ha detto ai giornalisti che l’economia italiana dovrebbe venire calcolata come divisa nel Nord, che cresce del 3% l’anno, e il Sud che scende del 2% annuo, risultando nell’apparentemente debole tasso annuale dell’1%.

Questa dichiarazione è assurda comunque la si guardi, ma soprattutto è pericolosa e fuorviante. E’ assurda in termini matematici: in quanto il Sud ha un Pil minore, ci vorrebbe molto più di una riduzione del 2% annuo per neutralizzare su scala nazionale l’effetto della crescita del 3% del Nord. Ma è assurda anche in termini fattuali: nell’ultimo decennio, il Pil del Sud è sceso solo due volte: di poco nel 2003, e poi nel biennio 2008-9, quando comunque si è ridotto meno di quello del Nord. In nessun anno dell’ultimo decennio il Centro-Nord è cresciuto più del 2%.

Tutto questo non è per negare che il Sud resta un problema. La sua crescita economica dovrebbe in effetti essere più rapida di quella del Nord, in quanto ha un minore costo del lavoro e parte da una posizione più bassa. Ma il punto è un altro: questo funzionario molto importante del Tesoro ha usato questo falso per dire che non era richiesto alcun intervento nel cuore dell’economia italiana, il cui tasso di crescita e la ricchezza sono già a livelli tedeschi. In realtà questo si può affermare soltanto per alcune zone dell’Italia settentrionale, escludendo non solo il Sud, ma anche il Centro e pure diverse regioni del Nord. Metterla in questi termini equivale a dire che l’America sta andando bene perché Silicon Valley ha ricchezza e successo, o che l’economia britannica è sana perché Londra è una città ricca.

E’ un modo di distrarsi, intento ad auto-ingannarsi. Perfino il settore manifatturiero non sta andando bene quanto i corrispettivi in altri Paesi europei, ma concentrarsi solo su questo significa perdere di vista il quadro generale: che non vengono creati posti di lavoro, che la produttività non sale, così come non aumentano il reddito e gli standard di vita. Questa debolezza è evidente sia nel settore dei servizi che in quello manifatturiero. Diverse società incontrano troppi ostacoli per crescere, burocrazia, legislazione sul lavoro, accordi sindacali, tasse, privilegi di varie categorie, monopoli, istruzione mediocre e tanti altri.

Questi fattori rendono statisticamente falsa anche la fondamentale asserzione sull’Italia, che la sua forza maggiore sono i suoi imprenditori: il tasso di nascita di nuove imprese in Italia negli anni precedenti alla crisi è stato inferiore sia a quello della Francia che a quello della Germania. Ma decidere di rimuovere questi ostacoli, rischiando di infastidire quelli che ne beneficiano, sarebbe difficile, forse anche doloroso. Dunque, meglio attaccarsi alle illusioni di forza ed elasticità come virtù nazionali.



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